Due ore di una tensione che cresce ad ogni minuto, irrigidisce i muscoli e la carne, accorcia il respiro. Blackbird è un precipitare lento nell'abisso di un amore ingiusto, malato eppure, proprio perché amore, giustificato, quasi sostenuto.
Sembrerebbe poterci essere solo l'orrore, sul palco, a definire i contorni dell'accaduto: contorni che via via diventano più nitidi, scendendo nei particolari più carnali della storia. Eppure, su quel palco, non affiora mai il giudizio, il dito accusatorio. Vittima e carnefice si confondono continuamente nelle spire di un amore disturbato, certo malsano, messo in dubbio, eppur così forte e radicato da lasciare inorriditi. Così il pubblico all'uscita di uno spettacolo, traballante nei suoi giudizi più radicati. Si esce inorriditi dall'impossibilità di giudicare, maltrattare il protagonista, allontanarsene con sdegno. Il maestro Popolizio ci porta dalla sua parte, nella sua debolezza, nella sua sofferenza, molto più silenziosa e marciscente di quella della bambina ormai ventisettenne, che invece grida, sputa, manifesta tutto il suo dolore. Si esce con l'anima buia e le gambe che tremano, come chi si guarda dentro e vede più di quanto sia pronto a sapere. Un Popolizio sempre grandioso accompagnato da una Anna della Rosa
che si impara ad apprezzare dopo la prima mezz'ora di spettacolo e che poi diventa la vera protagonista del palco, capace di accompagnare lo spettatore nel corpo e nella testa di una bambina sbagliata, forte, rovinata, carnale e impaurita, ferita, lucida. Sola.
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